"Depressione": nessun termine psichiatrico ha mai avuto un successo paragonabile. Non passa giorno senza che i notiziari non riportino fatti i cui i protagonisti “erano in cura per depressione”. È tirata in ballo per tentare di “spiegare” qualsiasi comportamento ritenuto anomalo, grave o decisamente folle.

Sicché, sentendoci molto giù di morale, possiamo temere di essere pazzi pericolosi, o per lo meno gravemente malati.

È lo stesso timore che assale le persone che ci sono vicine.

Lo spettro del Disturbo Bipolare spaventa immancabilmente chi cerca di apprendere qualcosa sulla depressione dai media, dai libri divulgativi, dal web.


Innanzitutto non esiste una diagnosi di depressione tout-court.

È un termine troppo generico che, per assumere un significato clinico abbastanza preciso, deve essere integrato da altre qualificazioni e specificazioni. Si possono quindi diagnosticare episodi depressivi maggiori, depressione ricorrente, disturbi depressivi dell’umore, depressione reattiva, depressione unipolare, depressione post-partum, e molte altre condizioni comprendenti un umore depresso.


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Nella pratica quotidiana (specie del Medico di Medicina Generale), capita tuttavia sovente che si formulino diagnosi di sindrome depressiva generica, o di sindrome ansioso-depressiva, certo molto vaghe.

Questo ha comunque un senso: non sempre si riesce ad individuare una chiara entità patologica a cui applicare terapie mirate; ma non per questo si deve rinunciare ad intuire ed indicare per tempo che la sofferenza può raggiungere livelli e caratteri tali da richiedere aiuto medico specialistico (che senza diagnosi non trova formalmente giustificazione).

Le diagnosi più sofisticate possono attendere, eventualmente si porranno a scopo di studio (per lo più); non servono molto a chi cerca sollievo.


Preferisco, nella mia pratica, permettere al paziente di esprimere i propri vissuti, che potranno essere definiti depressivi, ma anche, più eloquentemente, malinconici, tristi, scoraggiati, rinunciatari, disperati, pessimistici, o come meglio crede di parlarne (anche di esprimerli al di là delle parole).

Terapia della depressione

Tendo a non prescrivere indiscriminatamente farmaci antidepressivi o “stabilizzatori dell’umore”.

Questi farmaci sono immensamente diffusi, e godono di una immeritata fama.

Sono molto efficaci, se usati correttamente, ma in genere sono considerati addirittura una panacea.

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    La loro enorme diffusione (in perenne crescita) secondo alcuni sarebbe semplicemente il riflesso di un aumentato bisogno nella popolazione. Trovo che questa interpretazione sia estremamente fuorviante.


    Innanzitutto si tende a misurare un disagio che colpirebbe larghi strati della popolazione come se si trattasse di un’epidemia. Potremmo aspettarci un vaccino contro la depressione?


    Si tratta evidentemente di una semplificazione grossolana. In genere, quando si adottano visioni del genere, si fa appello a vaghissimi malesseri dell’epoca che si sta vivendo, e non a precisi meccanismi eziopatogenetici che giustifichino un approccio rigorosamente medico-scientifico. Quindi non è nemmeno razionale (oltre che ad essere mistificatorio) affrontare ogni caso di depressione nello stesso modo in cui si ritiene di dover trattare tutti gli altri.

    Purtroppo la tendenza dominante spinge tutti (pazienti, medici, divulgatori, opinionisti, testimonials) a identificare la cura di uno stato depressivo con una terapia psicofarmacologica (tutt’al più integrata da un po’ di psicoterapia cognitivo-comportamentale, ma poca e breve).


    La svolta verso il consumo di massa di antidepressivi è stata segnata dall’adozione di questi farmaci da parte dei medici generici, che fino a pochi decenni fa consideravano i disturbi psichici materia strettamente specialistica, e non si sognavano nemmeno di prescrivere psicofarmaci (se non ansiolitici, già da tempo dilaganti).

    Tengo in alta considerazione il lavoro dei medici di medicina generale, ai quali, se posso mi rivolgo per concordare le terapie. Conosco il sovraccarico burocratico e tecnocratico che li opprime e non permette loro di seguire i pazienti come una volta. Penso che la mia collaborazione con essi sia più efficace (per i pazienti e per i medici) se li aiuta a liberarsi dell’ingrato compito di curare pazienti che hanno bisogno di un ascolto che è impossibile prestare in un ambulatorio di medicina di base. La prescrizione di antidepressivi come routine non aiuta ad altro che ad eludere la patologia e la relativa cura (che non si esaurisce certo nel farmaco).


    La descrizione dettagliata delle terapie antidepressive esula dagli scopi del mio sito. È argomento che mal si presta ad una schematizzazione, va affrontato una volta avviato un rapporto terapeutico.


    Comunque, anche nel caso che tale rapporto sia in atto, non amo discutere con i pazienti di recettori, serotonina, adrenalina, amigdala, ippocampo e tutte le variazioni fanta-neurobiologiche che già frastornano la mente di chi è spinto a parlare di sé come di un laboratorio di biochimica, mentre non sa niente dell’argomento (non è affatto tenuto). Detto francamente, anche gli Psichiatri di Neurobiologia sanno pochissimo (e non credo che se ne debbano occupare in eccesso). Se stanno in studio con i pazienti, non stanno nei laboratori di ricerca. Sono clinici, non scienziati.


    La mediazione fra scienza e pratica psichiatrica è attuata in realtà in massima parte dalle aziende farmaceutiche, vale a dire con criteri prima di tutto commerciali, a opera di informatori, che sono professionisti, ma non sono né scienziati né terapeuti.

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